La Rivoluzione Analogica – La rivincita dell’analogico. Quando il vinile sorpassò il cd

Da titolare di una piccola rubrica che si chiama “La rivoluzione analogica” e da appassionato di musica non potevo astenermi dal trattare l’argomento della rivincita del vinile sul cd.

Fonte: Depositphotos

È proprio di questi giorni la notizia che il vecchio supporto analogico vende più del supporto digitale. Certo, si tratta di una guerra tra poveri ormai, in uno scenario in cui la musica liquida la fa da padrona, non in termini di vendite ma in termini di visualizzazioni, ascolti e download. Un deserto di supporti fisici, ma anche un deserto di supporti finanziari per gli artisti e il mercato discografico.

Nel tempo digitale l’acquisto della musica è per un mercato di nicchia fatto di veri e propri appassionati e maniaci. Negli anni 60/70 e 80, le hit più importanti, bene o male, le compravano tutti – nei ‘60 era il 45 giri, nei ‘70 gli album e la comparsa delle grandi pop e rock star, negli ‘80 l’avvento della musica legata ai trend giovanili. Poi la digitalizzazione… il cd e poi l’mp3… Napster… il download illegale e gratuito… oggi Spotify, Apple Music e le altre piattaforme di ascolto.

Non voglio fare il solito discorso banale sul deserto digitale che lasceremo dietro di noi, ai nostri figli che non avranno foto da toccare, eccetera. Il mio problema è un altro, la vera e propria sopravvivenza di chi la musica, specie quella di qualità, la compone e la suona.

Paul Weller, una grande pop star britannica che amo particolarmente, ha dichiarato al New Musical Express: «I’ll never support Spotify: for the artist it’s shit, it’s disgraceful». Il suo ultimo album con oltre tre milioni di ascolti ha fruttato all’artista solo 10.000 sterline, il che renderebbe il fare arte solo un hobby, una roba da dilettanti e non da artisti e compositori che con la musica ci campano. Risultato: un livellamento della qualità verso il basso o verso l’apice annientando tutto ciò che di interessante potrebbe stare in mezzo.

Insomma, questa vittoria del vinile sul cd potrebbe essere una vittoria di Pirro. “L’inferno è un posto senza musica”, qualcuno più autorevole di me lo affermò tantissimo tempo addietro (a voi la scoperta della citazione). Vi invito a diventare rivoluzionari e militanti.

La musica un tempo prevedeva una partecipazione attiva. Dovevi essere un “militante” della musica. Amare la musica richiedeva azioni concrete e investimenti di tempo e soldi. Per scoprire la musica dovevi andare in edicola e comprare le riviste (altro atteggiamento di consumo in estinzione), dovevi leggere le recensioni dei critici che sentivi affini, dovevi ordinare i dischi (perché fin quando non aprirono i negozi un po’ più ricercati anche in provincia non riuscivi a trovare niente). Poi dovevi “catechizzare” gli amici, il che corrispondeva a registrare cassette investendo altro tempo e altri soldi (nonché un altro atteggiamento di consumo e diffusione ormai estinto).

Se volevi condividere una canzone, uno stato d’animo, una sensazione avevi bisogno di far partecipare fisicamente gli amici (quelli veri, non quelli di Facebook), quindi dovevi registrare l’LP su cassetta per ascoltarlo anche in macchina, sulla moto o sul walkman, aspettando di incontrare un amico cui gridare “ti devo fare sentire una cosa!”.

Esattamente quarant’anni fa il postino mi citofonava per consegnarmi il pacco di Contempo record che conteneva due dischi dei Cure: “Faith” era appena sfornato mentre “Three Imaginary Boys” era del ‘79. Non li avevo mai ascoltati prima, avevo semplicemente letto le recensioni perché allora la radio non programmava la musica “di nicchia” e internet, purtroppo, ancora non esisteva.

Mi dispiace che i ragazzi che amano la musica oggi non proveranno mai quel senso di ansia dell’attesa, della scoperta, della rivelazione, dell’azione fisica del compilare un modulo d’ordine, andarlo a spedire con i soldi a mezzo raccomandata (così arrivava prima) oppure telefonare ai negozi (Contempo, Nannucci, Millerecords, Revolver) che solo da pochi clienti fidati ricevevano ordini telefonici per poi spedire in contrassegno.

I commessi o il titolare erano dei veri e propri consulenti. Non rimpiango niente del passato, ma quella sensazione della citofonata del postino che diceva “…pacco per Gianfranco Moraci, c’è da firmare, deve scendere con quarantatremilalire!”.

Ecco, quei soldi mantenevano una filiera: gli artisti, le sale d’incisione, le etichette indipendenti e non, le tipografie, gli artisti delle cover (spesso dei veri e propri capolavori che portavi a casa con pochi soldi), i fotografi, i negozianti e non so quanti altri.

Insomma, se l’analogico vince sul digitale e ritorna per dare concretezza alle nostre passioni e mantenere vive le arti, ben venga.

Gianfranco Moraci. Sono siciliano e faccio il copywriter. Non facciamone un caso.
Lavoro e ho lavorato per agenzie di comunicazione nazionali e multinazionali, ma anche come consulente di comunicazione freelance per aziende italiane, internazionali ed Enti Pubblici.
Attualmente sono nomade tra Milano, Roma e la Sicilia. Mi alterno tra la coltivazione dell’orto e il terziario avanzato; tra la raccolta delle melanzane in campagna e le campagne per nuovi e vecchi media in città.
Ho lavorato a campagne internazionali e a Roma ho diretto il reparto creativo di importanti agenzie nazionali e internazionali.
Attualmente sono stato accolto amorevolmente da Milano e spero che possiate divertirvi a leggere le mie inutili divagazioni accolte dagli amici di Touchpoint.

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